"Nelle irrisolte antitesi di Ibsen"

Nelle irrisolte antitesi di Ibsen.
“La creatura” degli Akròama al Teatro Libero di Palermo


di Agata Motta


“La creatura” è l’opera d’arte suprema, quella nata dall’incontro artistico di uno scultore e della sua musa ispiratrice, giovane modella uccisa, nella sua natura più intima di donna, dal rifiuto dell’artista a possederla fisicamente, in quanto immagine vivente della bellezza e della purezza.
Il lavoro, portato in scena al Teatro Libero dalla compagnia sarda Akròama per la regia di Lelio Lecis, è liberamente ispirato all’ultimo dramma di Ibsen “Quando noi morti ci destiamo”, considerato il testamento spirituale dell’autore per la riflessione sul rapporto tra l’Arte, supremo ideale da raggiungere, e la Vita, inseguita e sempre preclusa a chi, invece, è destinato all’immortalità dai propri capolavori. Il gruppo scultoreo sulla Resurrezione, immaginata come una fanciulla nuda e purissima che si libra nel cielo dall’alto di un piedistallo, è dunque il capolavoro per eccellenza dello scultore Rubeck, un Simeone Latini che sa dargli il giusto tono di iniziale apatia e poi di riaccesa passione. Ma proprio quel piedistallo, che nel tempo assumerà sembianze sempre più nette e infine preponderanti rispetto all’idea originaria, verrà considerato suprema e ulteriore offesa per la modella Irene, un’eterea e bellissima Lea Karen Gramsdorff
, che sa rendere ad un tempo algido e vibrante il suo personaggio.


Si susseguono la fuga, la follia, la morte interiore per lei, in un crescendo di disfacimento fisico e morale, mentre in lui la crisi dell’abbandono e il conseguente inaridimento umano e professionale porteranno ad un crescendo di insoddisfazione e di vana ricerca di scampoli di vita. Ma neanche la giovane e vitale moglie Maja riuscirà a restituirgli il piacere dell’esistere e, conscia dell’insuccesso, persino lei cercherà altre strade percorribili. Il climax nell’opera, oltre che nei nuclei narrativi, è rappresentato sia  nella geografia dei luoghi - si passa dalla stagnante attesa nella stazione balneare allo slancio ascensionale delle alte vette innevate – sia nel linguaggio: concreto e materiale quello di Maja e Ulfheim, la coppia antagonista, nostalgico ed elegiaco quello dei protagonisti. Nella riduzione dell’opera, Lecis - che gioca ambiguamente con la “morte” di Irene, biancovestita come un’apparizione soprannaturale - isola e piega il rancore della fanciulla alle proprie esigenze espressive sino a farla diventare carnefice. Nella bella scena finale, creata con un efficace gioco di effetti luminosi assecondati dalla bella musica di Amy MacDonald, gli infelici amanti si porgono l’unico e ultimo abbraccio mortale, mentre lei con lo stiletto-fermacapelli colpisce e affonda nella carne mai posseduta dell’uomo che non ha saputo amarla e nel verde stagnante di una pozza d’acqua posta a sostituzione dell’originario candore della valanga.

L’odio anoressico e narcotizzato di Irene è anche, e soprattutto, quello della giovinezza offesa dal crollo delle illusioni, e il danno che ne consegue non può essere risarcibile. Rosalba Piras (Maja) e Tiziano Polese (Ulfheim) rappresentano invece, in questo dramma che Ibsen ha voluto costruire geometricamente per contrapposizioni evidentissime, il legame agli aspetti più brutali e prosastici dell’esistenza, entrambi sono vivaci e reali, solidi e massicci come i tavoli e le panche di legno della scenografia, manovrata e sistemata a vista proprio dall’unico personaggio, il cacciatore di orsi reso allegro dall’acquavite, che possiede i  muscoli e la forza (reali e metaforici) necessari per il compito.
La Creatura, quindi, nell’immagine finale consegnata ai posteri - un groviglio di corpi umani con sembianze animalesche sul piedistallo e, in posizione quasi secondaria, la nuda bellezza della Resurrezione – è il simbolo che suggella l’antitesi irrisolta tra Artista e Opera (al centro della ricerca dello stesso regista) tra Arte e Vita.


source: Scenario