"Fare dell’arte l’arte del fare" - l'intervista di Gianluca Floris (testo integrale)

Ecco il testo integrale dell'intervista a Lea Gramsdorff condotta da Gianluca Floris (cantante lirico, regista, autore e altro ancora) nell'ambito del suo programma Fare dell'arte l'arte del fare, per RadioX di Cagliari.

Quest'oggi abbiamo un'artista che è difficile da definire: un'attrice di cinema, attrice di teatro e anche una pittrice e un'artista visuale. Benvenuta a Fare dell'arte l'arte del fare, Lea Gramsdorff.

Ciao a tutti! Grazie per avermi invitato perché intanto devo dire che io RadioX l'ascolto sempre, tutti i giorni.

Siamo molto contenti di questo e quindi iniziamo subito questa nostra chiacchierata che sarà sicuramente feconda. Intanto parliamo del tuo percorso, da dove vieni, io so che tu nasci artisticamente col diploma di recitazione per il cinema al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, che per chi non lo sapesse è il centro di alto perfezionamento, una specie di università per registi, per attori, tutti i mestieri del cinema, una grande scuola. Parlami di Lea che capita al Centro Sperimentale. Come mai?

Diciamo che - non so neanche dirti esattamente perché - sin da piccola avevo deciso che avrei fatto l'attrice, anche se più orientata verso il teatro all'epoca. Il mio migliore amico, con cui facevamo la stessa scuola a Milano, aveva la passione del cinema, voleva fare il regista, mi disse un bel giorno "perché non facciamo la selezione al Centro Sperimentale, così se entriamo entrambi ci divertiamo un sacco". Io non ero molto convinta di questa cosa del cinema, però tra vedere e non vedere feci l'esame d'ammissione, passai tutte le selezioni e fui ammessa.

Perché i corsi sono a numero chiuso, cioè non è che tutti possono frequentare il Centro Sperimentale.

No, ne prendono dodici ogni anno.

Per cui c’è una forte selezione. E quindi già eri un talento, eri brava.

(ride) Non lo so, non pensavo che il cinema fosse il mio, e invece poi a dire la verità quando ho iniziato a lavorare sul set ho scoperto che quella era la mia dimensione, la dimensione che mi

dava più gioia. Dopo invece, trasferendomi a Cagliari, la carriera cinematografica si è andata un po' perdendo per strada e ho ritrovato il teatro.

Hai ritrovato il teatro, hai fatto numerose collaborazioni, forse stare in periferia ti permette anche di osare un po' di più qualcosa nella sperimentazione, nella scelta di testi particolari, perché quando sei nel grande mainstream inizi a fare le pose nel grande circo del cinema scegli di meno, devi selezionare di meno, o no?

Be’ sì, a un certo livello è così chiaramente, poi forse quello che mi ha insegnato di più il trovarmi “in periferia” è stato dover attingere a molte più risorse.

In che senso? Risorse tue?

Certo! Per esempio, se non avessi vissuto la grande privazione del cinema non avrei riscoperto il teatro, non avrei iniziato a fare anche la regia teatrale, che è la cosa che, se dovessi proiettarmi nel futuro, nei prossimi dieci o vent'anni, spero di coltivare di più. E non avrei scoperto le arti visive.

Hai scoperto le arti visive. Un paio d'anni fa lessi di questa performance, questa installazione di 3-4 artisti all'interno del centro culturale Il Ghetto, e c'era anche Lea, che io conoscevo come attrice e che invece lì vestiva i panni della pittrice o comunque dell'artista visuale che usa svariati materiali, svariate cose non convenzionali. Vado lì, ti rompo le scatole perché rimango a chiederti duemila cose. Com’è successo? Non è una cosa che uno si improvvisa, è una cosa che evidentemente ti appartiene da tempo. Non bariamo!

Io ho sempre dipinto, ma era più una risorsa collaterale, e poi invece è diventato il mio pane quotidiano perché appunto vivo qui da vent'anni circa e ho passato almeno i primi dieci senza essere mai coinvolta come attrice. E quindi cosa dovevo fare? Un artista non può vivere senza esprimersi in qualche modo, è come l'acqua, prima o poi da qualche parte deve andare a scorrere.

Sì, per forza, per uno che non vuole fare l'artista ma che è un artista è indispensabile fare. Uno dei nostri temi forti è il rapporto dell'arte con la tecnica, perché secondo noi non esiste nessun tipo di arte che non si possa esprimere, creatività espressa attraverso una tecnica. Anche se vogliamo negare una tecnica, stiamo inventando una tecnica che nega la tecnica, per cui comunque la tecnica è indispensabile. Parliamo di quella metà della tua vita che è la parte attoriale. Tu hai fatto una scuola molto strutturata, il Centro Sperimentale di Cinematografia, ma anche se avessi fatto una scuola di teatro classico, un’accademia d’arte drammatica, la tecnica è fondamentale. Immagino che alcune tecniche di formazione siano anche simili se non identiche. Parlami della tecnica dell'attore, perché un non addetto ai lavori può pensare “quell'attore è bravo perché è molto naturale”, io dico naturale un cavolo, però voglio sentirlo dire da te.

Ogni forma d'arte ha secondo me un bilanciamento diverso rispetto al fattore tecnico. La musica, per esempio, richiede una quantità di tecnica spropositata rispetto alla recitazione, in cui, per come la vedo io, l'aspetto tecnico non è così determinante. Anzi, nella recitazione, in realtà, ci sono certo le basi - che sono l'impostazione della voce, la dizione, tutte cose assolutamente fondamentali, se un attore non ha questo non è un professionista, il che non vuol dire ancora che uno sia un artista. Poi però, a un certo punto, il mestiere dell'attore rende indispensabile il fatto che la tecnica sparisca completamente. 

Questo forse in tutte le arti: l’ipertecnicismo svuota di contenuto e di sincerità. Quando guidi la macchina, non stai più a pensare "in questa curva devo fare così", cioè guidi e basta, perché la tecnica la devi interiorizzare, e così immagino anche per l'arte attoriale. Ma facendo io questo strano mestiere a metà fra la musica e l’attorialità, una cosa che si dice (forse siamo tutti debitori della scuola dell'Actors Studio) è questa: “hai fatto questo movimento che non mi piace, ti sei alzato dalla sedia, mi sembra che l'abbia fatto perché te l'ho detto io, allora non ti credo”. Il “non ti credo” per noi in teatro è fondamentale, ma “non ti credo” vuol dire che io devo capire che tu quello che stai facendo l'hai interiorizzato, il tuo personaggio lo sta facendo per un motivo sincero, anche se fingiamo.

Alle volte può essere anche che il movimento sia sbagliato, perché poi l'attore è un animale molto recettivo, il corpo dell'attore è molto recettivo, quindi quando un movimento non esce, alle volte è proprio perché il movimento è sbagliato. 

Oppure non è mio, perché il regista mi fa una richiesta che nella mia fisicità non funziona. Infatti spesso mi si dice “trovamene un altro, ma dammi una spiegazione”. Lo studio della tecnica dell'attore sembra che sia volto a portar fuori la massima naturalezza e sincerità, cioè il contrario di quello che uno si aspetterebbe, perché mi devi portare tu a credere al tuo personaggio per cui la tua tecnica deve nascondersi.

È un lavoro di costruzione molto complesso, cioè per arrivare a un grado di credibilità, di verosimiglianza, di naturalezza, effettivamente c'è alle volte dietro un grande lavoro di concetto, un grande lavoro di analisi, un grande lavoro di studio del personaggio. Si dice che l'attore è al tempo stesso sia il musicista sia lo strumento, quindi quello che è importante da imparare è far lavorare bene queste due entità. Credo che questo sia un passaggio fondamentale da fare per un artista: trovare la propria tecnica. Uno può assimilare la tecnica - che è il minimo indispensabile - ma il secondo passaggio è creare e inventare la propria calligrafia, la propria grammatica, la proprio ortografia, la propria sintassi. Una volta che trovi quello, in realtà, il problema della tecnica non c'è più, perché sai tu come far funzionare il tuo strumento. Quella però è una cosa che difficilmente ti insegnano, è difficile da insegnare.

Qual è il rapporto fra l'attore e il personaggio che deve interpretare? Ci sono tante scuole, c'è chi dice che bisogna mantenere la separazione, c'è chi dice che bisogna diventare quel personaggio. Nel teatro, quindi con il pubblico, sembra che l'attore nel rapporto con il suo personaggio mantenga un minimo di distanza, anche forse dovuta al luogo fisico, alla quarta parete.

Nel cinema la distanza si deve completamente abbattere.

Parlami di questa differenza.

Il cinema in fondo si àncora nella realtà, fa di tutto per ricreare una realtà. Il teatro da questo punto di vista è un contenitore più artistico, nel senso che necessita di un passaggio di astrazione. Quindi è quello che l'attore in scena deve riuscire a fare nel rapporto col suo personaggio: raggiungere un piccolo livello di astrazione in più rispetto a quello che farebbe davanti alla macchina da presa.

Anche perché se il patto fra spettatore e attore è che io spettatore non guardo più Lea Gramsdorff ma sto guardando la protagonista di questo dramma, io devo crederci. Mentre al cinema io mi dovrei tuffare dentro, come La rosa purpurea del Cairo

(pausa)

Parliamo della seconda vita artistica di Lea, anch'essa molto stimolante. Un'altra parte dell'arte di Lea Gramsdorff è quella dell'artista visuale - pittrice lo trovo un po' riduttivo perché tu ti occupi anche di altre tecniche. Accennavi al fatto che comunque è sempre stata una parte tua, una necessità espressiva anche intima, cioè non hai mai pensato di farne un mestiere reale.

No, finché non mi sono trasferita qui a Cagliari non l'avevo mai presa in considerazione. Poi ho iniziato a dipingere moltissimo perché la notte non dormivo ed era l'unico momento nel quale ero completamente libera. All'inizio i miei lavori erano molto legati al racconto della mia condizione...

Quindi uno strumento di tuo sfogo, di tua espressione.

E il caso ha voluto che un gallerista mi proponesse di fare una mostra e da lì ho iniziato. 

Come ti trovi nel ruolo di Lea Gramsdorff pittrice e artista visuale? Quand'è che unirai le due cose per diventare la nuova Marina Abramović?

(ride) Forse non ho ancora trovato il modo di far perfettamente coincidere questi due elementi che mi trascinano da una parte e dall'altra. Però devo dire che in fondo si completano. Anche perché lavorare per una mostra per me è molto stancante, perché poi devi attingere a un sacco di idee, risorse, ispirazione. La stessa cosa mi accade dopo uno spettacolo, mi trovo svuotata, quindi il fatto di passare subito all'altro linguaggio in realtà crea un continuo movimento di creatività, che ogni volta ti insegna una cosa su quello che hai appena fatto però nell'altro linguaggio.

Si dice che nell'arte in genere sia l'allievo che sceglie il maestro, cioè quello mi corrisponde molto allora decido di seguirlo. Accade di meno se tu ti trovi in un posto strutturato, un conservatorio o un'accademia di belle arti o un'accademia d'arte drammatica, dove hai il tuo professore che però non è detto che diventi il tuo maestro. Nel tuo caso il tuo maestro chi è stato?

Io ho un maestro, per me è stato molto importante l'incontro con lui, e l'ho incontrato al Centro Sperimentale. Al Centro la grande fortuna era di fare i seminari con incredibili maestri di ogni metodo - Susan Strasberg giusto per fare un nome -, facevamo seminari in continuazione con registi, con pedagoghi. L'insegnante di ruolo era Goliarda Sapienza, che era una scrittrice, un personaggio incredibile ma che non aveva per la verità moltissimo da insegnare a livello tecnico-recitativo. Tra questi vari docenti a un certo punto è apparso Jurij Alschitz, un pedagogo russo e lì è cambiato qualcosa. Finito il Centro Sperimentale avevo la sensazione di non aver studiato abbastanza e quindi ho deciso di seguire quello che io avevo scelto come maestro, è così iniziato un percorso di studio con lui che è durato diversi anni. I suoi seminari ruotavano proprio intorno alla questione dell'attore come artista, quindi sulla differenza tra un attore e un attore-artista, ed è stato un percorso di formazione molto lungo e molto duro.

E qual è la risposta?

(ride) La risposta è che non c'è la risposta. Tra le mille cose ti posso dire che è stata un'esperienza che mi ha completamente destrutturata, quando ero giovanissima quindi non avevo neanche una struttura da destrutturare. Terminato questo percorso, che è stato anche un po' un'agonia, ero destrutturata ma avevo i mezzi per ricostruirmi da sola, e ho ancora oggi tanta gratitudine perché ho talmente tanto materiale che so sempre dove attingere.

Come se ti avesse dato un metodo per la rinascita continua?

Qualcosa del genere, tra l'altro puntando a una qualità così alta da essere quasi irraggiungibile. Lui è ancora in attività, a Berlino fondamentalmente, è considerato un grandissimo pedagogo per attori. Col suo insegnamento, che passa attraverso la filosofia, ti può insegnare un atteggiamento artistico rispetto al processo creativo, e quello mi permette oggi anche di scrivere, mi permette oggi anche di essere un artista visivo.

Quindi è una chiave che non si esaurisce nell'essere artista attoriale ma qualsiasi tipo di artista. Questa è una cosa importante perché è un problema che ci mettiamo spesso. Molti anche del settore del cinema fanno fatica a identificarsi come artisti, gli piace più l'idea dell'artigianalità, dell'arte collettiva. Però l'essere artista è una cosa diversa. Io che non ho seguito un percorso così strutturato, ti direi istintivamente che l'artista è colui che riesce a renderti la lettura del suo presente, della sua vita, anche se sei un interprete di musica barocca. Non so che tipo di ruolo politico e culturale tu attribuisca all'essere artista, perché per me l'artista ha un ruolo quasi rivoluzionario, da guastatore, sennò è un manierista, un artigiano.

Questa è un'ottima domanda. Io penso che la caratteristica fondamentale dell'artista sia l'essere un ricercatore, che però a differenza degli altri ricercatori non cerca la risposta. Penso che sia la categoria umana che di più riesce a sostare nel lungo, insopportabile, abissale "non lo so". 

Mi ricordo una chiacchierata con un mio amico artista che crea opere con materiali di riciclo ma viene dal design. Lui fa un bel ragionamento sulla differenza fra design e arte: il design secondo lui deve rispondere a determinate domande e deve offrirti delle risposte, l'arte no, come dici tu. L'arte ti deve porre la domanda e la domanda resta lì. Una caffettiera "artistica" è una caffettiera impossibile, che non può fare il caffè; una caffettiera di design fa anche un buon caffè. Sono due mestieri molto diversi. Quindi l'arte è un grande punto di domanda, bella questa cosa.

Sì, è la capacità di soffermarsi davanti a questo "non lo so" . Questa ricerca ossessiva che abbiamo per le risposte, in qualche modo crea come una cortina di insensibilità, secondo me. L'arte è quella forma di energia che ci spinge a comunicare quella grande inquietudine, che poi alle volte diventa bellezza, alle volte diventa provocazione, dipende anche dal tipo di artista che sei. 

Quando noi studiamo le civiltà del passato, recente o antico, noi analizziamo l'arte che quel periodo ha espresso, perché nessuno come l'artista sa descrivere il suo tempo, anche quando apparentemente non lo fa o nega di farlo. Questo è più immediato se tu interpreti un testo a teatro o fai del cinema, però lo è anche forse se tu oggi interpreti un ruolo nel "Giardino dei ciliegi", perché lo interpreti come artista del tuo tempo. 

Per questo ti dico che forse la regia oggi mi interessa di più. Perché l'attore non è del tutto libero: la tua vita artistica spesso dipende dalle scelte altrui, dalle decisioni altrui, dal gusto artistico altrui. La regia invece ti permette di prendere ad esempio un testo di Euripide e trovare il rapporto che ha con la società di oggi, con noi, e quando riesci a creare quel ponte la gente lo attraversa insieme a te.

Siamo dei pifferai magici.

(ride)

Però ci devono seguire con coscienza.

Siamo arrivati alla fine della nostra chiacchierata, dove abbiamo solo dato dei titoli, perché poi ognuna delle cose che abbiamo toccato meriterebbe veramente un lavoro che magari poi faremo davanti a una birra o un bicchiere di vino.

L'ultima domanda veloce: per i giovani di oggi che sentano un impulso, magari non ancora strutturato e non eccessivamente cosciente, un giovane che voglia fare l'attore o che senta di dover fare il pittore - poi diventare artisti al cinquanta percento è c*** per cui è inutile stare lì a programmare troppo, qual è il consiglio che ti senti di dare a un giovane aspirante regista o pittore o danzatore?

Quello di cercare i propri temi, le proprie ossessioni personali, attingere a quello. Se poi scopri che ne puoi fare a meno non vale la pena imbarcarsi in un mestiere così difficile, in una carriera così ardua. Se invece non ne puoi fare a meno vuol dire che è quello, e a quel punto iniziare dalla tecnica.



source: www.radiox.it