"Lea Karen Gramsdorff. Il peso del vuoto”



“It’s the presence of distance and it’s floating in time”
Man in the moon (Grinderman)


Dal Nulla. Complesso di opere fortemente spirituali legate alla parola, al concetto, alla proiezione di immagine. Come è nata questa serie?
“Dal Nulla” è il risultato di una forte attrazione per la teosofia ebraica. L’idea della creazione “ex nihilo” mi affascina moltissimo, la trovo molto più moderna e complessa dell’interpretazione cristiana della Genesi, che è più “orizzontale”. In un testo molto avvincente di George Steiner dal titolo “Grammatiche della Creazione” viene ripercorso il processo creativo di Dio e messo in relazione a quello dell’artista (che dal nulla non crea, per quanto s’illuda o sforzi). Nello stesso periodo leggevo il trattato di Virginia Woolf “Una stanza tutta per sé”, sempre dedicato alla creazione e alle condizioni necessarie perché essa si compia. C’è stato un cortocircuito, ed ho elaborato i passaggi della creazione nella “stanza tutta per sé”. Le tele tutte uguali erano pensate come una sequenza cinematografica, le varie fasi della creazione accadevano in un piatto di minestra. A cominciare dal piatto vuoto, si passava allo “tzimtzum” termine ebraico che definisce l’origine del cosmo, cioè il momento in cui il NULLA si ritrae e lascia spazio alla materia, il


“brodo primordiale”, poi luce, ombra, separazione delle acque e così via fino alla creazione dell’umanità. Infine una grande tavola dal titolo “L’insostenibile silenzio di Dio”.

Apollo è una serie metafisica in cui la materia esplode dalla forma. Cosa ha significato per te confrontarti con questo tema?

Apollo 18 è nata in un momento di grande tensione interiore. La termodinamica dice che un cambiamento, una trasformazione da uno “stato” ad un altro, non può avvenire senza l’intervento di un’energia esterna, per quanto la predisposizione alla trasformazione sia insita alla materia, sotto forma di entropia. Io mi sentivo così, immobile esternamente e pronta internamente, ma trattenuta dal decollare. Credo capiti a tutti gli esseri umani, in alcune fasi della vita. Anche Apollo 18 non è mai decollata, è stata la prima missione spaziale a rimanere “a terra”. Ovviamente il desiderio di fare una ricerca sullo spazio mi chiamava già da un po’. Spazio in tutte le sue declinazioni: astronomico, fisico, geometrico, mentale. In più la stessa parola in tedesco, “Raum”, sta anche per stanza, mio tema ricorrente. E così sono nate quelle piccole “capsule” geometriche, contenenti ancor più piccoli oggetti del quotidiano. Piccole stanze sospese nello spazio pittorico, tirate verso l’alto da fili, che tuttavia (essendo disegnati) non tirano abbastanza.
Con Apollo 18 ho iniziato a rinunciare alla figura. O meglio a collocarla in uno spazio più ampio, rendendola più oggettiva, come una parte del racconto anziché il racconto stesso. Far vivere lo spazio pittorico piuttosto che “riempirlo” è stato un passaggio importante, come lo è stato cercare profondità “spaziali” nei vari cromatismi. Volevo rendere lo spazio rarefatto pur usando molta materia. Concepire geometrie impossibili. Legare le tele tra di loro in composizioni quasi casuali e vedere se l’occhio umano istintivamente sarebbe riuscito a leggervi una ragione, una logica. Ho utilizzato colore ad olio, carta, carboncino ma anche matita e biro, quando voler dare l’idea di spazio porterebbe ad utilizzare poco colore, scuro, e molto diluito.



Le tue opere sono leggibili su diversi piani culturali. Da dove nasce questa tua sensibilità?

Credo dipenda dall’appartenenza a più culture e a nessuna allo stesso tempo. È una condizione sospesa, poco nitida, che si legge spesso nei miei lavori. In passato ho vissuto la mancanza di una Heimat come “penality” esistenziale. Oggi si traduce nel problema pragmatico di non sapere dove vorrei essere seppellita, ma a parte questo ho sicuramente una forma di distacco culturale che mi libera la vista. Posso osservare, attingere ad ogni risorsa senza far torto a niente e a nessuno. Mi piace giocare con i concetti, le parole, i luoghi comuni. E non solo della cultura italiana o di quella tedesca, che rinnego e sposo entrambe. Spesso e volentieri la mia ricerca mi spinge ad interrogarmi sull’esistenza di Dio. Tutte le religioni e teosofie aprono domande, le stesse forse, ma è il modo in cui le aprono che cambia radicalmente. Non avere appartenenze da questo punto di vista, o territori da difendere, è una fortuna, una libertà che non scambierei con nessuna certezza.


Quanto sono importanti per te le influenze letterarie e visive di letterati e artisti per il tuo lavoro?

Le influenze... o contagi, trasmissioni, contaminazioni... sono fondamentali. Prendiamo la farmacologia. Un “principio attivo” può trovare applicazioni e formulazioni differenti. Anche l’arte si muove per princìpi attivi, sembra. Una formula, un’ossessione, un’intuizione, una spinta creativa nella sua essenza distillata può essere rimescolata e diventare musica, danza, letteratura, arte visiva, ma con ogni probabilità anche fisica ecc. Mahler può spingere Thomas Mann a scrivere su una partitura musicale, Thomas Mann ispirare Visconti a trasformare in cinema un racconto, e così via. Personalmente, avendo una formazione d’attrice, sono molto legata al linguaggio cinematografico: inconsciamente ragiono sempre in termini di inquadratura: campo lungo, primo piano o fuori campo: nell’opera deve accadere o essere accaduto qualcosa; allo stesso tempo la letteratura mi trascina verso un determinato contenuto logico o filologico, mentre la musica mi mette nello stato giusto per lavorare. Ma anche una teoria matematica può aprire dei mondi.



"Lea Karen Gramsdorff. Il peso del vuoto"
(testo: Andrea Carlo Alpini)
Theca Edizioni, Lugano 2013