Ventiquattro parole-opere per mille e una storia
Raffaella Venturi
(L'Unione Sarda, 1 dicembre 2017)
È una mostra raffinata, fatta da un’artista-entomologa che non si tira indietro dal mettere al microscopio il proprio vissuto e il proprio inconscio, perché questo è il lavoro dell’artista. E che dice molto anche sulle donne. È infatti anche una mostra molto femminile, piena di grazia e ingenuità, di stupore per le tautologie realizzate, che non hanno l’ironia di Magritte, che mette lì una pipa e scrive che quella non è una pipa, ma hanno la volontà di raccontare. Le piccole opere bianche si dispongono come stazioni di meditazione: ci si sofferma davanti a “paura”, “amore”, “sesso”, “musica”, “teatro”, “madre”, “figlia”, “io”, “padre”; c’è anche “Dio”, poi “Sardegna”, c’è “cane”, “casa”, “mondo”; c’è la fila dei verbi: fare, sognare, credere, avere, volere, essere, poi , nella parete opposta, da solo, aggrappato alla parete dell’animo di tutti, c’è “mancare”. Perché questa è senz'altro anche una mostra sulla mancanza. A cosa equivalga la mancanza, ciascuno lo sa dentro di sé, ed è forse “mancare” la parola-opera che tende a incenerire tutte le altre, che scava e rimescola di più, che butta in terra, stropicciate, tutte le altre parole, come le pagine di dizionario che Lea ha appallottolato e gettato sul pavimento.
source: L'Unione Sarda