Una Storia può essere nuova eppure raccontare di tempi immemorabili. Il passato nasce con lei. (Michael Ende)
Due artisti, due percorsi di vita differenti, decidono di incontrarsi per dialogare su temi eterni. “Chi siamo? Dove andiamo? Da dove veniamo?”, domande che l’uomo trascina con sé dalla notte dei tempi a cui teologi e filosofi hanno cercato di dare risposta.
E l’arte? Paul Gauguin, alle soglie del Novecento, dipinse la sua più grande tela così intitolandola, come se sentisse che qualcosa, da lì a breve, avrebbe cambiato la storia dell’uomo: giungeva l’epoca delle guerre planetarie.
L’uomo lupo dell’uomo capace di atrocità assolute è in grado di spegnere le stelle con un sol soffio, così al suono tremolante di un “miserere” le genti di Lea Gramsdorff, in EXODUS, vagano peregrine su terre desolate sotto il cielo da cui un dio trascendente descrive imperscrutabili disegni. Popoli in fuga, già immortalati dagli scatti disperati di Salgado, che trascinano la loro dignità, i loro ricordi in scatole accatastate a formare colline. Dissolti, spariti, come inghiottiti dalla terra e dall’indifferenza del mondo.
Il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, questi i segni che secondo Primo Levi servono a riconoscere l’infezione, mai debellata, del genocidio; non possiamo negare di sentirli, anche oggi, pericolosamente intorno a noi.
Ma Lea Gramsdorff scava oltre il carattere epico del tema per approdare all’individuo, ai milioni di singoli che quotidianamente raccolgono la propria vita in una valigia e partono verso futuri incerti bagnati di lacrime, di abbandono ma anche di speranza. Ecco quindi apparire, su piani differenziati, delicati simboli, oggetti della quotidianità o pagine strappate alla fede familiare da stringere tra le mani nei momenti di sconforto. Novelli pellegrini in cammino lungo la strada dell’io. Questo mondo globalizzato, attraversato in lungo e in largo come mai nella storia, può contenere radici?
Le stesse domande sono accolte da Simone Dulcis per costruire le sue cattedrali.
DI TEMPO IMMEMORE è il titolo della serie che racconta del tentativo dell’uomo di condividere con Dio l’eternità. A lui ha innalzato preghiere di pietra scolpita sempre più complesse, come omaggio alla propria intelligenza che sopra lo pose a tutti gli esseri viventi. Cattedrali – corali in contrappunto verticale in una tensione continua verso il cielo. Perché Cristo, come diceva Agostino, lo si tocca con la fede non con le mani. Una metafisica della luce che, secondo l’abate Suger, permette alla mente contemplativa di trascendere la materialità di ciò che vede in direzione del suo fondamento immateriale: «
de materialibus ad immateriala excitans, de materialibus ad immateriala transferendo…», una lettura anagogica dell’arte e dell’architettura.
Ma le cattedrali di Simone Dulcis sono prive di segni religiosi, perciò parlano di una fede universale.
Sono passati secoli, forse ere dalle cattedrali così sapientemente costruite nella serie che precede di un anno le opere qui esposte. Le strutture architettoniche sembrano ormai dissolte nelle forme liquide della pittura informale che tende a riassorbirle nel colore. La traccia dell’uomo è quasi svanita in paesaggi dell’anima stretti tra piani assoluti e metafisici che riconducono a mondi bizantini di campiture piatte su cui il tempo si blocca per raccontare i temi eterni della fede. Tra queste compaiono linee sottili come lance che sembrano autoritratti kafkiani: “
un’immagine della mia esistenza sarebbe una pertica inutile, incrostata di brina e neve, infilata obliquamente nel terreno, in un campo profondamente sconvolto, al margine di una grande pianura, in una buia notte invernale.” (Kafka)
A corollario della loro esposizione i due artisti destinano una serie di frammenti conclusi in sproporzionate cornici barocche, miniature che condensano i temi veicolati dai grandi lavori, aggiungendo l’elemento ironico ed amplificando quello surreale. Feritoie che mostrano luoghi contemplabili ma non raggiungibili. Un invito a rimpicciolirsi per poter passare poiché, parafrasando ancora Kafka, l’artista è sempre più piccolo e più debole della media degli uomini. Per questo sente più intensamente, con più forza degli altri, la pesantezza della sua presenza nel modo.
Temporaneo e permanente, una coincidentia oppositorum offerta come estrema sintesi nel vertiginoso viaggio dell’uomo verso la Verità.
(Efisio Carbone)