"Tramonto Italiano" - testo di M. Memoli

"Come uno s-piazzamento"
(testo critico di Maurizio Memoli)

 
Le piazze che pratichiamo, attraversiamo, usiamo per i nostri appuntamenti, gli incontri o le manifestazioni, quelle in cui tiriamo tardi sono il concentrato di mille significati simbolici in bilico tra pratiche sociali e memoria individuale e collettiva. In esse si mette in scena lo spazio pubblico nelle sue qualità materiali e immateriali fatte di oggetti, forme, appartenenze, divisioni, patrimoni, valori, miserie, abitudini: sono la scena della nostra vita pubblica e lo specchio delle nostre vite private.
Si tratta di uno spazio relazionale tra oggetti e soggetti che “passano”, che lo attraversano (donne, uomini, ma anche tram, auto, uccelli, cani randagi…) e quelli che la formano, che compongono lo scenario (donne e uomini, e poi case, tetti, statue, biancherie…).
Tra gli uni e gli altri si forma un “patto impalpabile” in cui l’uno è anche l’altro in un gioco di ridondanze tra appartenenze d’identità collettiva, comunitaria, politica, plurale ma anche individuale, familiare, singolare.
Nell’istallazione Tramonto Italiano m’è parso di poter vivere questo patto, di poter vedere i miei concittadini, i vicini di casa, quelli simpatici e quelli antipatici, quelli che odio e quelli che amo. M’è parso di vedere la finestra da cui mi affaccio e quella di fronte, m’è apparsa la luce della strada di alcune serate d’estate e il loro rumore soffocato di televisione diffusa. M’è parso di immaginare le grida lontane di un quartiere non ancora assonnato e che, peraltro, era proprio lì, a
due passi fuori dalla porta, proprio per strada.
Eppure la piccola piazza italiana, il cortile in cui The Forest ci fa entrare, è uno spazio spaventoso perché fermo, immobilizzato nella sua specularità, attonito di luci soffocate, misurato sulle chiusure ottuse di vite rintanate. È la piazza assonnata dai media e dalla politica, dalla comunicazione urlata e monotona, ossessiva e sempre uguale, è lo spazio pubblico di questi anni italiani depressi, di questi mesi insulsi, di queste ore vaghe e che, come questo tempo, appare immobilizzata, assiderata dagli artefatti delle parole, del loro rumore, delle sovrapposizioni di echi smorti e ripetitivi, noiosi e noti, cantilenanti e scontati.
È uno spazio residuale, vuoto perché pieno di case in cui risuonano, tutte uguali, indistinguibili, le vacuità del nostro vivere comune, delle nostre miserie, delle insipienze.
Nello spazio del cortile-piazza allestito, scolpito, disegnato, armato da The Forest ci si sente un po’ più inebetiti, nudi nell’incapacità di rompere quei vetri, chiamare quelle persone al di là delle finestre, avvolti nel tepore del solito messaggio televisivo. Ci si sente un po’ atterriti perché, dall’altra parte della finestra, rischiamo di scovare noi stessi, affaccendati a discutere di ciò che non è stato e che non sarà. Mentre fuori un’altra sera scappa…

Il luogo-piazza, che rappresenta il valore mobile dell’esperienza collettiva, viene sedimentato e noi, le nostre case, i nostri piccoli squarci di intimità sono “musealizzati”, cristallizzati. In essa confluisce il “pieno” dei significati simbolici collettivi e la celebrazione, paradossale, del “vuoto” della comunicazione politica. È verosimile, così, che questo cortile-piazza rappresenti le nostre città, e noi stessi, sospesi in una “sottrazione” di locus (vuoti di luogo) e “addizione” di logos (somme di discorsi).