(testo tratto dall'intervista condotta da Clarita di Giovanni per la serie "Sardegna Andata e Ritorno")
Questo è un po' un discorso sui limiti che una persona che non è nata e cresciuta in Sardegna, che non ha l'isola geneticamente dentro, secondo me non riesce a metabolizzare così facilmente come chi ci è nato. Insomma col mio lavoro ho bisogno di confrontarmi con il resto del mondo, con quello che si fa ovunque, ed effettivamente la Sardegna non è un buon trampolino di lancio. Bisogna prendere una grandissima rincorsa perché sennò rischi di finire a mare. L'idea di partire da casa mia con la macchina e di non poter andare in qualsiasi direzione, est, ovest, nord, sud, senza limiti, ma di finire sempre in qualche modo a mollo mi turba, sì, mi turba.
È un posto confortevole dove vivere. Alla fine ci si confronta sempre in pochi, ci si misura con le persone che si conoscono. Questo da una parte è rassicurante, e capisco che per molti artisti sardi sia una certezza, che poi faccia anche paura uscire da questo meccanismo, da questo microcosmo "isola". Non mi dispiace la quotidianità, sento il limite del confronto. Non è una questione di poter prendere l'aereo, di essere una società mobile, perché poi alla fine partire da qua è sempre molto faticoso. Non tanto per il fatto dell'aeroporto, del check in, del fare i biglietti, dei costi, è proprio che ogni volta è una partenza, non è un mettersi in viaggio semplice, è un lasciare qualcosa e poi un ritorno, e quindi ogni volta è collegato a un po' di sofferenza.
Non posso dire oggi di essere infelice di vivere qua. Come artista però ne risento, perché qui ho pochissime opportunità: il cinema è molto autoreferenziale, un cinema che parla ancora della Sardegna, molto vincolato alla sua matrice regionale, e quindi per me non c'è spazio, è ovvio, sono fuori ruolo.
Il fatto di non confrontarmi come facevo un tempo con persone sempre nuove, con un grande movimento ideologico anche internazionale, avendo lavorato anche con molti registi o attori stranieri, ecco, qua mi manca un po'. C'è un po' una povertà nel confronto. La “new age” sarda c'è e l'ho vista anche evolversi sotto i miei occhi, perché sono qui da sei anni ed effettivamente è successo molto: il cinema si è svegliato, ha avuto una grossa spinta, c'è una certa competizione - che è salutare - tra i registi sardi, sono nati tanti scrittori, tantissimi festival, hanno aperto molte gallerie, si sta cominciando a creare un certo movimento.
La cosa che trovo sempre un po' strana è appunto che gli artisti di qua si considerino comunque sempre dei registi sardi, degli scrittori sardi, dei pittori sardi. Questo lo trovo strano. Sarà che io sono una persona sradicata, sono tedesca ma sono nata in Italia, non ho mai avuto delle radici, che è la cosa che invidio di più ai sardi. Sì, forse c'è anche un po' di invidia in questo. Per cui credo che l'attrazione per questa terra sia nata anche da questo motivo, dall'essere una persona che non ha casa, non ha una terra che le appartiene. Ne ho sofferto sempre moltissimo da piccola e credo che anche il fatto che mi sia innamorata di un uomo sardo abbia a che vedere con questo, con l'attrazione verso questo radicamento, ho voglia di radicarmi da qualche parte.
Però, per un artista credo sia comunque fondamentale tenere alto un respiro universale. Credo che questo appoggiarsi artisticamente alle proprie tradizioni e alle proprie radici sia un buon punto di partenza, ma non ci si può fermare a questo.
Devo dire comunque che la Sardegna ha una sua magia assoluta che mi ha attirata, e non penso di essere qua per caso. Credo che ci sia sempre un destino per cui capitiamo in un posto, non è solo una scelta passiva il fatto di essere rimasta qua. Credo che ci sia qualcosa che devo ancora scoprire del perché sono capitata qua, c'è sicuramente un motivo buono.